19 Aprile 2024

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FEMMINICIDIO E LOCKDOWN: CONSIDERAZIONI ALLA LUCE DELLA FASE 1 DELLA PANDEMIA DA CORONAVIRUS

Autore: ANGELA GANCI

Psicoterapeuta, giornalista e docente

Femminicidio: un termine che indica, come facilmente si intuisce, l’uccisione di una donna da parte di un uomo.

Meno intuitiva, forse, e tragicamente più violenta, la motivazione che sta alla base della morte e dell’aggressione: una donna che viene uccisa in quanto donna, appartenente a un genere debole, inferiore, laddove la supremazia, il diritto stesso di vita e di morte sulla debole e sottomessa spetterebbe all’uomo.

Retaggio di una società patriarcale e maschilista, il femminicidio ricalca il bisogno di potere dell’uomo, il suo esasperato bisogno di controllo sulla vita e la morte della donna, negando il diritto all’emancipazione e i diritti di libertà e uguaglianza, validi al di là di mere questioni di genere.

Se la violenza si può estrinsecare nelle modalità verbali, come minacce e insulti, o non verbali, come lesioni personali, fino appunto all’omicidio, il particolare momento storico del lockdown ha indubbiamente esacerbato relazioni già improntate alla violenza, complice la forzata convivenza tipica della Fase 1 della pandemia da Coronavirus.

In questo versante i dati parlano chiaro: secondo quanto reso noto da un report rilasciato dal Servizio analisi criminale interforze del Ministero dell’Interno, ammontano a 59 le donne uccise nel primo semestre del 2020, con un’incidenza del 45% degli omicidi totali, contro un tasso del solo 35% del 2019. Se questo è un dato allarmante, appare ancora più indicativo il dato per cui il 77% dei femminicidi avviene in ambito familiare e affettivo.

Una possibile interpretazione appare a questo punto avanzabile: la vicinanza fisica, dovuta alle restrizioni della pandemia, avrebbe incrementato conflitti già esistenti all’interno di coppie e famiglie, facendo esplodere tensioni normalmente stemperate dalla possibilità di movimento, e dalle occupazioni individuali, obiettivamente negate dal lockdown.

Il risultato? La violenza feroce, dovuta vuoi allo scontro caratteriale divenuto oramai inevitabile e continuo, vuoi alla crisi economica e allo stress correlato, vuoi ancora a una pregressa violenza non più mediata, ma amplificata dalla comunanza asfittica di spazi di vita, fino all’esito fatale.

E se il 1522, numero messo a disposizione dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha costituito, in tempi di isolamento, uno dei pochi strumenti a disposizione per chi era costretto alla convivenza con un familiare violento, facendo registrare, secondo quanto rende noto il Bo Live, il magazine dell’Università di Padova, dal 22 marzo 2020 in poi, un incremento esponenziale delle chiamate e delle richieste d’aiuto, per un totale di 11.920, emblematica appare la sua decrescita, sempre secondo la stessa fonte, in coincidenza con la Fase 2 e la progressiva e graduale riapertura del 4 Maggio.

A fronte altresì della diffusa incertezza delle donne, restie, per motivazioni di vario ordine, alla denuncia, appare chiaro quanto la violenza sia in grado di incidere sulla qualità della vita e la paura di annientamento delle donne, in maggiore misura in condizioni di confino fisico, e quanto sia necessaria la presenza di una fitta Rete territoriale di supporto psicologico e legale a difesa delle donne violate.