I gruppi economici che da anni sostengono il Gay Pride in America si stanno tirando indietro magari pensando a Trump?

di Giulio Ambrosetti
La notizia l’ha lanciata qualche giorno fa Bloomberg: i tradizionali grandi gruppi economici che da anni sostengono finanziariamente il Gay Pride negli Stati Uniti d’America si stanno tirando indietro. “I gruppi del Pride – si legge su Bloomberg – si affannano per raccogliere fondi mentre gli sponsor aziendali sono in ritardo. Gli organizzatori delle parate nelle città statunitensi si stanno rivolgendo ad aziende e residenti locali per colmare le lacune nei finanziamenti. Ma non hanno rinunciato a corteggiare i partner aziendali”.
La notizia arriva da una fonte importante: Bloomberg, infatti, è una multinazionale dell’informazione con sede centrale a New York e filiali in tutto il mondo. Opera con televisioni, radio, agenzie di stampa e, naturalmente, sulla rete. Ovviamente, è molto informata su quanto avviene negli Stati Uniti d’America. Dove la comunità LGBTQ sembra essere in affanno. C’entra l’effetto Donald Trump? Con molta probabilità, sì, se non altro perché il nuovo presidente USA, appena ha messo piede alla Casa Bianca, ha rilasciato una dichiarazione lapidaria: “I sessi sono due…”.
Insomma, Trump non è, notoriamente, un estimatore del gay pride: anzi. E’ chiaro che la sua influenza si fa sentire, soprattutto nel mondo economico statunitense. Questo è un problema, perché organizzare i Pride in tante città degli Stati Uniti è impegnativo, soprattutto dal punto di vista economico. Si tratta di mettere su cortei con costumi, mezzi di trasporto e via continuando. I fondi servono, eccome! Chi segue un po’ il mondo dell’informazione americana sa che la tendenza di una parte del mondo economico di questo Paese a riposizionarsi rispetto alla comunità LGBTQ è iniziata nel 2023.
Negli USA, già un anno prima della rielezione del Repubblicano Trump, era nell’aria la crisi dell’amministrazione del Democratico Joe Biden. Proprio com’era avvenuto nel 2015, quando le tante guerre scatenate in mezzo mondo dall’allora presidente Barack Obama avevano creato grande disagio sociale tra i ceti medi americani, anche le guerre degli ultimi anni hanno creato disagio in tante grandi aree dell’America.
Già nella Primavera di due anni fa si capiva che i Democratici americani erano in difficoltà. In più, la globalizzazione dell’economia, voluta proprio dai Dem statunitensi, aveva provocato la delocalizzazione di tante grandi aziende americane, che così hanno trasferito i propri stabilimenti in altri Paesi del mondo dove il costo del lavoro è più basso. Negli USA, si sa, cambiare lavoro non è un problema. Ma quando chi perde il lavoro non trova una nuova occupazione, beh, anche negli Stati Uniti cominciano i problemi. L’ex presidente Biden, in verità, ha provato a sostenere il mondo delle imprese americane, ma le ‘fughe’ dagli USA da parte delle imprese americane sono state di gran lunga più che proporzionali agli aiuti di Stato dell’amministrazione Biden.
Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca la musica è cambiata. Come tutti sappiamo, il nuovo presidente sta inondando il Pianeta di dazi doganali. Che hanno soprattutto due obiettivi: ridurre drasticamente il deficit federale americano e riportare in America le aziende americane che negli anni passati hanno trasferito i propri stabilimenti in altri Paesi del mondo. Facciamo un esempio semplice: le aziende automobilistiche americane che si sono trasferite in Messico e in Canada dove il costo del lavoro è più contenuto esportano, anzi, esportavano le automobili in America.
Ma con i dazi doganali appioppati dall’amministrazione Trump a Canada e Messico non riescono più a esportare le auto negli USA. A questo punto tanto vale riportare gli stabilimenti nel proprio Paese d’origine, cioè in America. Quando Trump dice che, siglati gli accordi con i vari Paesi del mondo su import ed export (nel senso che i Paesi che esportano beni negli USA dovranno acquistare almeno una parte di beni americani), i dazi doganali spariranno, con alcune eccezioni, sta annunciando un principio semplice. I Paesi che proveranno ad attirare le imprese statunitensi ricorrendo al cosiddetto dumping salariale – ovvero sfruttando il costo del lavoro più basso – saranno colpite dai dazi. Fino a quando Trump sarà presidente sarà così.
Che c’entra questo con il Pride? C’entra, perché Trump ha deciso non solo di fare rientrare in America tante aziende americane che avevano delocalizzato all’estero i propri stabilimenti, ma anche di aiutare le stesse imprese statunitensi. Detto in soldoni, l’attuale amministrazione introdurrà nell’economia elementi di ‘protezionismo economico’. Con l’incertezza che oggi imperversa nel mondo, il nuovo presidente vuole un America autosufficiente in economia. Ovviamente, gli imprenditori sanno che a Trump la comunità LGBTQ e, in generale, l’ideologia gender non va proprio giù. Tanti imprenditori americani potrebbero decidere di non infastidire Trump. Anche perché, non solo in America ma in tutto l’Occidente, soprattutto l’ideologia gender con annessi e connessi è diventata, come dire?, un po’ aggressiva.
Con l’ausilio di un’informazione, spesso compiacente, chi ha provato a manifestare dubbi stato tacciato di “intolleranza”. In realtà, almeno in alcuni casi, l’intolleranza è stata quanto meno vicendevole. Nella popolazione di tanti Paesi occidentali, ad esempio, si è diffusa una certa ritrosia, se non fastidio, verso i tentativi di coinvolgere i bambini nell’ideologia gender. Questa tendenza è in crescita. In più, il presidente Trump sta riducendo, se non eliminando, tutte le fonti di finanziamento pubblico verso le istituzioni che hanno fatto da cassa di risonanza alle ‘nuove ideologie’ delle sinistre occidentali che hanno via via sostituito i diritti dei lavoratori, che per definizione sono diritti sociali ed economici, con i ‘diritti civili’. In questo grande calderone dei ‘diritti civili’ delle sinistre occidentali rientrano le comunità LGBTQ, l’ideologia gender, le Ong e anche alcune università americane.
Lo scontro, in America, è, per certi versi, epocale.
E arriva anche in Europa. Se negli Stati Uniti le comunità LGBTQ cominciano ad avere difficoltà nel reperire i fondi, non si può dire che nell’Unione europea le cose vadano meglio. Anche nel Vecchio Continente si registra una certa insofferenza verso certe posizioni estreme. Tra l’altro, la Ue è alle prese con una crisi economica che in parte è stata provocata dai dazi doganali di Trump e, in parte, è il frutto di una globalizzazione economica che perdeva colpi già prima dell’arrivo del nuovo presidente USA.
Insomma, le difficili condizioni economiche dell’Europa si faranno sentire in tutti i settori. Magari non subito, ma gli effetti arriveranno. Per tutti. Per dirla in breve, da parte della mano pubblica ci saranno sempre meno risorse per sostenere certe manifestazioni, che dovranno appoggiarsi sempre di più verso i privati. Il tutto in uno scenario economico europeo che sta pagando a caro prezzo l’avere impostato buona parte della propria economia nell’export in generale e nelle esportazioni di beni negli USA in generale.