Ma siamo davvero sicuri che un dollaro debole danneggi l’economia dell’America di Trump?

powell trump

Ci si interroga, in queste ore, sui possibili effetti negativi del dollaro americano diventato un po’ troppo debole. Ieri l’indice del dollaro, che misura il livello della moneta statunitense rispetto a un certo numero di valute di altri Paesi, è sceso a 98,2. Numeri alla mano, un valore così basso non lo si vedeva dai giorni in cui stava per esplodere la guerra in Ucraina. Stando a quanto si legge qua e là, alla base del valore basso del dollaro ci sarebbe lo scontro fra il presidente americano, Donald Trump, e il presidente della Federal Reserve System – la Banca Centrale americana conosciuta anche con l’acronimo Fed – Jerome Powell. Sempre a giudicare da quanto si legge nei giornali, Trump e Powell sarebbero ai ferri corti.

Il presidente americano ha chiesto ai vertici della Fed, cioè a Powell, di ridurre i tassi di interesse. La tesi di Trump è che, in assenza di inflazione, non c’è motivo di tenere i tassi di interesse elevati. Powell ha risposto picche. Perché? Forse perché il dollaro americano è sotto pressione e potrebbe non essere più considerato affidabile come ‘bene rifugio’. Il giornale scenarieconomici.it scrive che “il dollaro ha perso circa il 4,6%, con i cali più marcati rispetto all’euro, allo yen e al franco svizzero”.

A questo punto le domande sono due. Prima domanda: siamo veramente sicuri che un dollaro debole sia un problema per l’America di Trump? In questa fase storica, come ricordiamo spesso, il presidente americano è impegnato a ridurre l’enorme deficit federale. Due, grosso modo, i metodi per ridurre il deficit: o aumentare le esportazioni, o ridurre le importazioni. Trump è impegnato ad aumentare le esportazioni americane, ma anche a ridurre le importazioni con il ricorso ai dazi doganali. Introducendo i dazi sulle merci in entrata negli USA, gli stessi prodotti importati costano di più e i cittadini americani sono portati a preferire i beni prodotti in America. L’amministrazione Trump, si dice, ha eliminato i dazi doganali con la sola eccezione della Cina. In realtà, non è così, perché sono rimasti i dazi del 10% su tutti i beni che entrano negli Stati Uniti: e non è certo una cosa di poco conto: anzi. In più, adesso, ci sono gli effetti del dollaro debole. Non sempre in economia la parola ‘debole’ è sinonimo di condizione negativa. Una moneta debole facilita le esportazioni, perché i beni del Paese che esporta – in questo caso l’America – costano meno.

Ovviamente, una moneta debole produce anche effetti negativi. Sempre scenarieconomici.it sottolinea che il dollaro debole sta mandando a fondo la Borsa americana: “Il sell-off è stato rapido e diffuso – leggiamo su scenarieconomici.it – con l’S&P 500 e il Nasdaq in calo rispettivamente del 2,4% e del 2,5%. Il Dow ha perso 971 punti, mentre i giganti della tecnologia hanno guidato il calo: Tesla è scesa del 6%, Nvidia del 4,5% e Amazon del 3,1%. Tutti gli 11 settori hanno chiuso in rosso, con i titoli tecnologici, dei beni di consumo discrezionali e dell’energia tra i più colpiti” (qui l’articolo di scenarieconomici.it: https://scenarieconomici.it/i-contrasti-trump-powell-fanno-ribassare-il-dollaro-come-voleva-trump-ma-affondano-la-borsa/). Siamo certi che Trump, che vuole eliminare la globalizzazione dell’economia, sia così dispiaciuto del tonfo di Wall Street? Con un presidente americano così imprevedibile tutto diventa possibile.

Andiamo alla seconda domanda con una premessa: Trump e Powell si conoscono da tanto tempo e a volere Powell al vertice della Banca Centrale americana è stato lo stesso Trump un anno dopo la sua prima elezione alla Casa Bianca avvenuta nel 2016: Trump nominò Powell alla presidenza della Fed nel Novembre del 2017. Da qui la domanda: siamo proprio sicuri che la polemica fra Trump e Powell sia vera e non sia, invece, una mezza recita a soggetto? Ipotizziamo che gli elettori di un certo ‘peso’ di Trump, magari imprenditori, abbiamo chiesto al presidente un abbassamento dei tassi di interesse; non potendo dire “No”, Trump starebbe giocando di ‘sponda’ con i vertici della Fed per tenersi buoni i sui grandi elettori. Della serie: “Come potete notare, io Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, ho chiesto ufficialmente ai vertici della Fed di abbassare i tassi di interesse. Ma il presidente Powell si oppone. Come voi sapete, beh, ho le mani legate, perché la Fed opera in autonomia rispetto alla politica”.

La nostra ‘interpretazione’ del possibile Trump-pensiero non è poi così campata in aria, perché negli Stati Uniti d’America tutte le ‘Agenzie’ – la Fed, l’FBI (Federal Bureau of Investigation), la CIA (Central Intelligence Agency) e via continuando – godono di ampia autonomia. Anche se in certi casi non è proprio così. Negli anni della presidenza di Barack Obama il figlio di Joe Biden, allora vice presidente USA, Hunter Biden, operava in modo piuttosto disinvolto (qui un articolo: https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/12/02/guai-giudiziari-hunter-biden-alcol-droghe/7788522/) ma alla fine, tutto sommato, non ha passato grandi guai. Insomma, per dirla tutta, vero è che le ‘Agenzie’ americane godono di grande autonomia, ma qualche volta possono anche dare una mano alla politica… Dicono che il direttore del Consiglio economico nazionale, Kevin Hassett, stia lavorando per rimuovere Powell dai vertici della Fed. Se sarà così, ebbene, vorrà dire che ci siamo sbagliati e che lo scontro tra Trump e Powell è reale. Ma se Powell resterà ai vertici della Fed fino alla scadenza del suo mandato, ovvero fino al 31 Gennaio del 2028, beh, allora significherà che qualcosa di vero nella possibile ‘recita’ con Trump magari c’è per davvero…