Il declassamento un po’ “pirandelliano” del debito americano da parte di Moody’s: ma cosa c’è sotto?

trump firma foto italpress

E’ esagerato affermare che gli ultra-liberisti e i globalisti non sanno più cosa inventarsi per colpire l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump? L’ultima trovata per denigrarlo fa sorridere. Parliamo della ‘Agenzia’ Moody’s che ha declassato il rating sovrano degli Stati Uniti. Il perché di questo un po’ comico declassamento viene motivato dai 36 mila miliardi di dollari di debito pubblico degli USA e dai tagli alle imposte, tagli che gli ‘economisti’ di Moody’s hanno già stabilito essere privi di coperture. Ma se ancora ‘sti tagli a imposte e tasse non ci sono come fanno a sapere che sono privi di coperture? Hanno la bacchetta magica? L’aspetto più divertente, mettiamola così, è che i mezzi d’informazione americani e occidentali in generale (ai quali l’amministrazione Trump ha cominciato a tagliare i contributi a fondo perduto che incassavano per fornire ai cittadini una ‘informazione libera’…) dicono che Moody’s era l’ultima delle tre grandi agenzie di rating a non aver effettuato il cosiddetto downgrade, ovvero la riduzione del rating di una società o di un titolo. La cosa, per l’appunto, divertente è che non si rendono conto di scivolare nel tragicomico di scuola pirandelliana. Proviamo a illustrare il perché.

Cominciamo con una domanda: cosa diavolo c’entra Trump con i 36 mila miliardi di dollari di debito pubblico USA? L’attuale presidente ha ereditato questo ‘buco’ dal suo predecessore che ha armato costosissime guerre in mezzo mondo. Trump, appena ha messo piede alla Casa Bianca, ha iniziato ad appioppare dazi doganali destra e a manca proprio per ridurre lo spaventoso deficit federale che ha ereditato. E sta cercando di fermare le guerre. Ma come: l’hanno accusato dicendo che i dazi doganali sono “dannosi” per l’universo mondo, anche se hanno cominciato a ridurre il deficit dell’America, e adesso lo criticano e declassano il rating sovrano degli Stati Uniti perché 36 mila miliardi di dollari di debito sono tanti? Forse questi ‘scienziati’ dell’economia si dovrebbero mettere d’accordo con se stessi. E, soprattutto, dovrebbero spiegare perché, con la precedente amministrazione Democratica di Joe Biden, che si curava poco o nulla del debito e del deficit federale, non c’è stato alcun declassamento, mentre ora che l’amministrazione Trump ha iniziato a ridurre il debito e il deficit federale, come in un finale pirandelliano, declassano il debito americano.

Non manca, nella spiegazione fornita dagli ‘economisti’, una spiegazione che in lingua siciliana si potrebbe definire a “trasi e nesci”: Moody’s ha sì abbassato il suo giudizio ad Aa1 da Aaa precisando: “Se riconosciamo la forza economica e finanziaria degli Usa, crediamo che questa non compensi più il declino dei parametri fiscali”. Guarda un po’ di cosa si sono accorti solo ora: “Il debito federale è cresciuto bruscamente a causa dei continui deficit”. Ma Trump, lo ricordiamo ancora una volta, si è insediato alla presidenza degli Stati Uniti lo scorso Febbraio e ha iniziato a ridurre il deficit. Se ne deve dedurre che i “continui deficit” sono frutto delle scelte del suo predecessore. Ma allora perché li rinfacciano a Trump? Perché lo debbono mettere in cattiva luce? Gli ‘economisti di Moody’s spiegano con sussiego che il deficit degli Stati Uniti d’America crescerà a causa dell’aumento dei pagamenti per interessi sul debito: debito che, lo ribadiamo ancora una volta, non è frutto delle scelte dall’attuale amministrazione americana, così come la stessa amministrazione Trump non ha nulla a che vedere con il “livello relativamente basso di entrate fiscali” che l’attuale presidente ha ereditato: un problema che Trump ha iniziato ad affrontare aumentando le entrate.

Come si può notare, c’è, in questa sceneggiata sul rating, il maldestro tentativo di penalizzare l’attuale amministrazione americana. La speranza di chi sta provando a denigrare Trump è che il declassamento sortisca effetti negativi sui mercati finanziari e globali. Non capendo che l’obiettivo di Trump è il ritorno all’economia reale che non può che passare dalla crisi delle Borse e dallo smantellamento della globalizzazione economica. I ‘timori’ delle ‘Agenzie di rating’ (che sono società private chiamate ‘Agenzie’) sono, in realtà, gli obiettivi di Trump. C’è una notizia, per citare un esempio, che è passata in secondo piano ma che, invece, è molto importante per riuscire a decifrare l’andamento dell’economia mondiale con l’avvento di Trump alla Casa Bianca. Parliamo della crisi economica del Giappone (qui un articolo: https://forbes.it/2024/02/15/il-giappone-e-in-recessione-non-e-piu-la-terza-economia-mondiale/). Sapete qual è il vero motivo per il quale l’economia giapponese segna il passo? Riposta semplice: perché come tanti Paesi del mondo – in testa Germania e Italia ma non soltanto, con riferimento all’Europa – il Giappone non riesce più ad esportare la gran mole di prodotti che, da un ventennio a questa parte, ha sempre rifilato agli Stati Uniti d’America. Lo ‘stop’ dell’amministrazione Trump all’importazione senza limiti, negli USA, di prodotti ha toccato anche il Giappone. Come scriviamo spesso, il fatto che per alcuni Paesi gli Stati Uniti abbiano sospeso in buona parte i dazi non ha boccato il ‘freno’ alla globalizzazione, perché rimangono i dazi universali americani del 10%, che hanno un peso non indifferente per tanti Paesi. E tra questi Paesi, a risentire dell’oggettivo ‘stop’ alla globalizzazione economica senza regole, c’è anche il Giappone.

Di più. C’è un effetto, provocato dai dazi doganali americani, anche a basso regime, che comincia a farsi sentire. Proviamo a illustrarlo partendo dal caso più eclatante: la Cina. Che, vuoi o non vuoi, non esporta più in America i propri beni come avveniva prima dell’arrivo di Trump. Per un Paese di un miliardo e mezzo di abitanti ridurre l’export e aumentare i consumi interni non è un’operazione semplice. Per aumentare i consumi interni bisogna che i cittadini del Paese che deve aumentare i propri consumi interni abbiano a disposizione il reddito. Ma, nel caso della Cina, è il gatto che si morde la coda: il reddito dei cittadini, nel Paese del Dragone, era frutto anche dell’export verso gli USA: ma se l’export verso l’America si è contratto non è affatto detto che la Cina abbia comunque la forza economica per fare crescere il reddito dei propri cittadini. Cosa stiamo cercando di segnalare? Che la Cina, non potendo esportare più in America come un tempo, sta cercando altri mercati: e tra questi mercati c’è l’Europa. Non a caso, quando Trump ha iniziato a piazzare i dazi di qua di là, Cina e Unione europea hanno cercato un accordo commerciale che servirà a poco, perché si tratta di due realtà che avevano impostato le rispettive economie sull’export senza fine degli Stati Uniti d’America. Ancora: sulla Cina c’è un dato economico che non è esagerato definire inquietante.

Ormai da qualche anno la Cina non rende noti i propri parametri economici. Gli anni in cui il Dragone esponeva, vantandosene, la sua crescita “a due cifre” sono solo un ricordo. Di fatto, a parte le notizia istituzionali, dell’economia cinese, o meglio, dell’andamento dell’economia cinese, oggi, sappiamo poco o nulla. Non conosciamo la reale crescita cinese, non ci sono dati ufficiali, sappiamo poco o nulla dell’economia reale cinese. L’unica cosa venuta fuori è la ‘bolla’ sull’attività edilizia: ma non si è capito se è stato uno ‘scoop’ occidentale o se la notizia è stata resa nota, sottobanco, dalla stessa Cina. Così come non sappiamo nulla dell’occupazione in Cina, soprattutto con riferimento all’occupazione giovanile. E’ chiaro che se si riduce l’occupazione non si possono aumentare i consumi interni. Qualche tempo fa, guarda caso in coincidenza con i primi ‘affanni’ della globalizzazione, si è diffusa la notizia che in Cina la disoccupazione giovanile stava diventando un problema. Ma, ribadiamo, sono notizie da prendere con le pinze perché non sono ufficiali. Di ufficiale c’è che la globalizzazione è in affanno già da qualche anno – vedi le proteste degli agricoltori europei fino ad oggi represse – e che Trump ha soltanto accelerato la crisi della globalizzazione. Oggi arriva il pirandelliano declassamento del debito americano, con il disperato e tragicomico tentativo di caricarlo sulle spalle di Trump. Cosa c’è, in realtà, dietro queste sceneggiate?