Sorpresa: la Volkswagen e magari altri gruppi tedeschi stanno trattando sottobanco con Trump sui dazi americani

trump (foto italpress) - mediaoneonline.it

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La Commissione europea che trattava per tutti e 27 i Paesi Ue era solo ipocrisia per dare all’esterno l’immagine di un’Europa ‘unita…

Ricordate i giorni in cui iniziava la trattativa sui dazi doganali tra Ue e Stati Uniti d’America? Il coro era unanime: l’Unione europea deve presentarsi unita, a trattare per i 27 Paesi dell’Unione deve essere una sola voce: quella della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Più uniti, più forti”: questo era lo slogan. Noi ci siamo permessi di contestare quest’impostazione sulla base di una considerazione di semplice logica economica e commerciale: gli Stati Uniti d’America, loro sì, sono un Paese unito, mentre l’Unione europea non è affatto unita.

Ogni Paese Ue – questo era ed è sempre il nostro ragionamento – ha interessi economici e commerciali diversi da quelli degli altri Paesi europei. In questo scenario sarebbe stato impossibile trovare una sintesi per accontentare tutt’e 27 i Paesi Ue. Anche perché il 90% del surplus commerciale dell’Unione europea verso gli Stati Uniti d’America, come abbiamo scritto più volte, per il l’85-90%, era in capo a soli tre Paesi dell’Unione: Germania con un surplus di circa 80 miliardi di euro all’anno; Irlanda, con un surplus di circa 50 miliardi di euro all’anno; e Italia con un surplus di circa 40-45 miliardi di euro all’anno.

Bene: com’è finita lo abbiamo visto tutti: con una debacle della Commissione europea di Ursula von der Leyen. Per i 27 Paesi Ue, sulla carta, penalizzazioni senza fine. Sulla carta. A noi il finale di questa storia aveva lasciato qualche dubbio. Perché? Perché l’accordo appare troppo sbilanciato in favore degli americani. Oggi scopriamo che Oliver Blume, amministratore delegato della casa automobilistica tedesca Volkswagen, tratta da qualche tempo con l’amministrazione americana di Donald Trump.

Quindi, mentre i mezzi d’informazione, in testa la televisione, prima magnificavano l’importanza della trattativa portata avanti da un’Unione europea unita, poi raccontavano l’esito non brillante, per l’Unione europea, della trattativa con Washington, ebbene, mentre ufficialmente avveniva tutto questo, c’era chi trattava sottobanco con l’amministrazione Trump per conto del proprio Paese o della propria azienda. E’ il caso del citato amministratore delegato della casa automobilistica tedesca Volkswagen, Oliver Blume, che chissà da quanto tempo tratta con la Casa Bianca. Così si viene a sapere che mentre si manteneva in vita ‘artificialmente’ l’unità dell’Unione europea, la Germania stipulava, sottobanco, accordi con gli USA. Non è nemmeno difficile capire la natura e le condizioni di questa trattativa. Trump ha sempre detto che a lui le chiacchiere interessano poco.

Le auto tedesche: cosa vuole Trump

Il presidente americano vuole che le industrie automobilistiche europee trasferiscano negli Stati Uniti una parte delle proprie produzioni. Apprendiamo, per bocca di Blume, che è quello che sta facendo la Volkswagen. A Trump interessa che le auto europee, in questo caso tedesche, si producano in parte negli USA; interessa che tali auto vengano prodotte con l’ausilio del cosiddetto ‘indotto’ americano (le forniture di materiali per le auto debbono essere acquistate sempre presso aziende statunitensi); al presidente americano interessa che queste imprese europee che, in parte, stanno trasferendo i propri stabilimenti negli Stati Uniti paghino le imposte e le tasse negli stessi Stati Uniti. Ovviamente, solo un ingenuo può pensare che per la Volkswagen e, con molta probabilità, per altre industrie automobilistiche tedesche valgano ancora i dazi doganali americani del 15% sulle auto europee: per chi, in Europa, opera in questo settore e non andrà ad investire negli USA, i dazi resteranno al 15%; per chi, come il gruppo automobilistico tedesco (o i gruppi?), andrà ad investire negli USA le condizioni cambieranno: e quali saranno queste condizioni commerciali non le verranno certo a raccontare a noi.

Di fatto, nella vicenda dei dazi doganali americani, abbiamo assistito al festival ‘europeista’ dell’ipocrisia: ufficialmente, a trattare era la Commissione europea per tutt’e 27 Paesi Ue. L’unità dei Paesi Ue, all’apparenza, era salva. Poi quello che è successo sottobanco forse non lo sapremo mai. Ci sembra molto improbabile che a trattare sottobanco con Trump sia stata e sia solo la Germania. Prendiamo il caso dell’Italia. Se, come hanno raccontato, i dazi americani hanno veramente danneggiato tutto l’export del nostro Paese verso gli USA, ebbene, ci dovrebbero essere proteste, anche piuttosto vivaci.

trattative sottobanco_ (foto italpress) - mediaoneonline.it
trattative sottobanco? (foto italpress) – mediaoneonline.it

Gli accordi sottobanco con gli americani

Invece, chissà perché, queste proteste non ci sono. Noi, facendo quattro conti, abbiamo scritto subito che i dazi americani al 15% avrebbero creato problemi ad alcune produzioni italiane, ma non tutte le produzioni italiane esportare in America. Abbiamo citato l’esempio del vino, sottolineando che i vini italiani di prezzo basso e medio basso non avrebbero subito conseguenze negative, perché in un Paese ricco come l’America il prezzo di 2-3 dollari in più per una bottiglia di vino può scoraggiare all’acquisto una fascia molto esigua di consumatori. Diverso il discorso per i vini italiani che si vendono a prezzi elevati: in questo caso il prezzo maggiorato di 50, 60,70 e anche 100 dollari a bottiglia creerà problemi. Quanto abbiamo scritto è ancora valido? Non lo sappiamo, perché non sappiamo se, sottobanco, il Governo italiano o le stesse imprese italiane abbiano trattato e stretto accordi con gli americani. La sensazione è che sembra assai improbabile che, in Europa, a trattare sottobanco con Trump siano stati e siano solo i tedeschi.

Un’altra testimonianza importante, che fa luce sulle vere trattative sui dazi doganali americani, arriva dalla Svizzera, Paese che non fa parte dell’Unione europea ma che è pur sempre un Paese europeo. Com’è noto, la Svizzera è stata colpita da dazi doganali americani del 39%. Per un Paese che produce orologi di alta qualità, andare a pagare alle dogane americane il 39% del valore degli orologi da vendere in America è un colpo micidiale. Così stando le cose, e meno che non si tratti di miliardari americani che non hanno alcun problema ad acquistare un orologio svizzero di alto o altissimo pregio ad un prezzo maggiorato del 39%, per la Svizzera è un accordo rovinoso. Ma, a quanto pare, le cose non stanno così nemmeno per la Svizzera. Si apprende, infatti, che le trattative tra Governo americano e governo svizzero (o aziende svizzere) sono iniziate quasi subito dopo l’annuncio dei dazi statunitensi. Ufficialmente, i dazi doganali americani appioppati ai prodotti svizzeri – che poi sono, per lo più orologi e cioccolato – sono al 39%. Ma questa è solo l’ufficialità. Quello che sappiamo è che noi, in realtà, non sappiamo nulla di quello che, sottobanco, combinano l’amministrazione Trump e i governi o le aziende che trattano con gli americani. L’unica cosa che ci è chiara è che, quando ci sono di mezzo soldi, Trump non lo batte nessuno. E che questa grande capacità di fare soldi l’ha sta trasferendo, anzi l’ha già trasferita nel Governo attuale degli Stati Uniti d’America. Che infatti, con i dazi, sta incassando una barca di soldi.